WS100

dicembre 2006

JOSE' MARIA CANO

WS100

Testo di Oscar Fulvio Giannino

Vi dirò fuori dai denti che non ero affatto pazzo per i dischi dei Mecano, il gruppo cult del pop spagnolo dove José Maria ci dava dentro alle tastiere insieme ad Ana la vocalist e al fratello Nacho,  il cuore musicale del gruppo anche se José s’incazzerà nel leggerlo. Anzi, non vado affatto pazzo per il pop spagnolo in quanto tale. Ma del singolo disco eponimo JoseCano, realizzato una volta che nel gruppo ciascuno ha preso la sua strada, mi hanno colpito due brani per ragioni che non sto a dirvi: Romina y Albano, immaginate voi perché; ma soprattutto Che Fidel, che ho trovato assolutamente geniale nel far denunciare le illusioni svanite della barbudos revolución proprio dalla voce del suo leader ipertrasformista, il grande affabulatore Castro.

Direte voi che tutto ciò poco o punto attiene alle opere esposte di Cano. Ma non è vero. Per capire che cosa muova la sua mano su tela, partite dal presupposto che non c’è iato rispetto alla vena anarco-espressionista che ne ispirava i brani musicali, gli arrangiamenti e i contributi alle suggestioni e ai testi. Nel cd c’è anche un brano su Basquiat, ed è quasi superfluo dire che siamo dunque alle prese con un artista di quelli che non fuoriescono dalla frequentazioni di scuole d’arte e accademie. Meglio così, per molti versi, soprattutto quando le accademie funzionano poco e male come nel nostro Paese – con tutto il rispetto per Brera. Ci sarà poi un perché, se oramai da trent’anni e più a questa parte sono le migliori accademie – da Dusseldorf a Los Angeles e Londra - a dover aprire le proprie porte ad artisti non accademici e nati per partenogenesi evolutiva sul terreno della sperimentazione. È il caso del nostro Cano, e anzi il caso invera una delle situazioni prototipiche dell’evoluzione sperimentale: visto che, come vedrete dalle sue opere esposte, Cano opera partendo da alcuni ambiti che sono “classici” dell’innovazione metalinguistica, come la grafica, la ritrattistica e la bozzettistica editoriale. I suoi ritratti di magnati dell’economia, della finanza e dell’impresa, le sue raffigurazioni d’asta e le provocatorie “reinvenzioni” degli annunci per sesso a pagamento di procaci professioniste del settore, suscitano nel giornalista economico appassionato d’arte – cioè nel sottoscritto imbrattacarte – un’attenzione quasi morbosa. Tanto da indurlo a decidere di scriverne e di farvene partecipi, anche se Cano meriterebbe indubbiamente miglior presentatore.

Sono almeno tre, le buone ragioni adrenaliniche che Cano evoca. È il denaro, il totem intorno al quale ruotano i suoi fantasmi. E il denaro nelle sue opere ci obbliga a ripensare una formula triadica fondamentale. La prima ha a che fare con la storia stessa dell’immagine nella tradizione iconologica occidentale. La seconda ci riporta a un grande confronto epocale nel quale apparentemente la pittura uscì sconfitta, proprio sulla carta stampata per la quale Cano crea, ad opera della fotografia. La terza, infine, ci restituisce a una ragione superiore grazie alla quale l’immagine rappresentata e non semplicemente riprodotta – sia essa a china o ad acquarello oppure, come provocatoriamente in Cano, con encausto su tela, programmaticamente fedeli a una delle più antiche e maledettamente complicate tecniche a caldo per la penetrazione e il successivo radicamento dell’impasto di cera e colore sul supporto – l’immagine rappresentata dicevo, continua in una tradizione editoriale diversa dalla nostra ad avere pieno e anzi prioritario diritto di cittadinanza, rispetto alla fotografia. E non per una diversa sensibilità all’opera pittorica rispetto alle mille possibilità della tecnica fotografica, ma per ragioni che affondano in una superiore civiltà del diritto: e non a caso infatti la tradizione affermatasi sui nostri giornali ne è invece esclusa.

Vi potrà sembrare che Cano non lo sappia o glie ne importi poco, ma comunque lo dovete ricordare voi: quando l’Occidente intero rischiò malamente di assumere per sempre un rigidissimo indirizzo anti iconico ancor più brutale di quello dell’Islam, ai tempi del grande conflitto iconoclasta che dal Sesto al Nono secolo dilaniò l’Impero d’Oriente e la cristianità tutta, fu proprio la relazione diretta tra Economia e Teologia dell’Incarnazione, la parola d’ordine che grazie al cielo ci ricondusse alla piena e legittima sovranità dell’immagine. Quando il secondo Concilio di Nicea confutò le tesi iconoclaste del precedente Concilio del 754, le Quaestiones dell’imperatore Costantino V sconfissero il bando alle immagini proprio in ragione del fatto che esso ipostatizzava “una concezione non economica dell’immagine naturale”. I Grandi Padri che teorizzano e affermano la superiorità dell’immagine – Niceforo, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita -  affermano che l’Economia è iconofila per definzione perché essa fa appello alla relazione ternaria tra sacro, natura e ragione. Essa è in altre parole il regno della discontinuità attraverso la quale l’uomo interagisce coi propri simili, con il creato, ma insieme lo scenario obbligato nel quale si dipana la Rivelazione la Redenzione e la Salvezza attraverso il Cristo. L’Economia, scrive Niceforo, è la téchne attraverso la quale Dio progetta di salvare gli uomini che lo vorranno, ed è lo strumento attraverso il quale prova a convincerli con milioni di scelte quotidiane. L’oikonomìa, aggiunge il Damasceno, è la soluzione della discontinuità posta tra l’akrìbeia- il rispetto passivo e privo d’iniziative del rigore inflessibile della legge – e la paràbasis, la sua mera trasgressione. Non è affatto una digressione erudita, il ricordarsene sempre: l’evoluzione della ritrattistica dei potenti e dei signori, il filone dal quale per evoluzione si giunge alle effigi dei magnati industriali per la stampa quotidiana, in tutto l’Occidente cristiano ha – sempre – avuto assai più a che fare con questa radice primigenia di teologia della libertà, che con le incrostazioni recentissime – risalenti solo a un secolo e mezzo fa – della Filosofia del denaro di Georg Simmel, e giù per li rami fino a Marcuse, Deleuze e Guattari. L’ascondimento del Sé nella crisi dell’Io che apparentemente e potentemente sfocia nel trionfo del Nihil - che viviamo prepotentemente nelle arti, nelle scienze e nel loro dialogare con l’etica dai tempi delle avanguardie viennesi a cavallo tra Otto e Novecento, e per l’intero corso del sanguinosissimo Ventesimo secolo – ottunde la mente alla maggior parte dei critici. Che nel Denaro e nell’Economia tornano a vedere lo Sterco del Demonio e l’orizzonte della Dannazione sociale  e individuale, come gli iconoclasti, invece del Regno della Libertà possibile e dell’elevazione, come sostennero grazie al cielo gli iconofili. La prima ragione per cui mi piace Cano, a stringere, è che le immagini dei ricchi e di tutti i traffici più o meno elevati che al denaro si riconducono non vengono ridotto a quella scomposizione dicotomica tra Uomo e Natura che è propria di chi nell’economia vede solo sopraffazione. Da buon liberista convinto della superiorità della Teoria dei Sentimenti Morali di Adam Smith rispetto all’Impero di Toni Negri, Cano mi e spero vi aiuti ad avere dei rapporti economici un’idea meno ostile e consustanzialmente avversa a ciò che unisce l’Umanità, e  non la divide: anche se non scommetterei che lui abbia i miei stessi gusti teoretici.

Quanto alle ragioni due e tre, è presto detto perché non desidero farla lunga e abusare della vostra pazienza. Walter Benjamin con la sua - ohimé troppo famosa – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,  soprattutto nella sua Piccola storia della Fotografia, è  divenuto nella modernità – e in primis nel settore dell’informazione su carta stampata -  l’augure e l’alfiere di una bislacca tesi secondo la quale solo la fotografia diveniva ineccepibilmente autentica, talché non chi ignora l’alfabeto e le immagini ma chi ignora la fotografia sarebbe stato l’analfabeta del futuro. Per chi qui scrive, un’autentica sciocchezza: testimoniata dalle mille falsificazioni che – colpevolmente o incolpevolmente a seconda dei punti di vista – la fotografia puntualmente ha operato nella storia dello scorso secolo, in barba a ogni predicata “restituzione della realtà” brechtiana. Ancora una volta concepita come realtà quale regno della sopraffazione dell’Uomo sull’Uomo, dello smarrimento di Sé e dell’impossibilità dell’IO.  Ora il sottoscritto – e parla da umilissimo giornalista economico – pensa invece che alla restituzione dei tratti demonologici ed eudaimonologici dei banchieri e dei capitani d’impresa,  dei finanzieri e di tutta l’Armata che ogni giorno scambia vorticosamente sui mercati mondiali valori reali e nozionali equivalenti – ogni giorno – a un decimo del Pil di tutti gli Stati Uniti, siano assai più utili e funzionali i ritratti d’artista che le fotografie. È un dannato errore dei capi d’impresa editoriale non averlo capito, ed essersi arresi alla tirannia dell’arte fotografica. Per questo lunga vita a José Cano e a tutti quelli come lui.
Infine, l’ultima osservazione, a conferma che il Diavolo sta nei dettagli. C’è un perché assai rilevante, nel fatto che siano i grandi quotidiani e settimanali della tradizione anglosassone e americana, ad aver tenuto viva la tradizione dei ritratti e non delle foto, legati ai protagonisti del denaro come ad alcune situazioni “topiche”: le aule giudiziarie quando vi si celebrano i processi, le grandi sedute d’asta quando si battono per cifre iperboliche ipervalutate operette contemporanee. Nella tradizione anglosassone, appunto, l’art-impression a differenza della fotografia non viola le prerogative della privacy dei protagonisti che realmente operano sulla scena: è per questo, ad esempio, che i fotografi non sono ammessi nella maggior parte delle aule giudiziarie americane. L’encausto di un Cano ci rende cooperanti osservatori di ciò che a suo giudizio è ed avviene, non  passivi videopati dal buco della serratura di un obiettivo fotografico. E scusate se è poco.